Alda Merini nell’oblio dei Navigli tra la grecità di Taranto di Stefania Romito

Ci sono incontri destinati a tracciare il cammino esistenziale e poetico nella vita di un letterato. L’incontro di un amore, ma anche di una cultura altra in grado di subliminare l’immanente essenza. È il caso di Alda Merini, poetessa dei Navigli che, nell’unione con il poeta salentino Michele Pierri, rinviene la magia di un cambiamento nella dimensione della grecità.

Al suo arrivo a Taranto, Alda deve avere avvertito l’energia lirica della Magna Grecia. Il suo “mal di vivere”, profondo immenso inesorabile, deve aver placato la sua atavica inquietudine nel respiro salmastro degli azzurri flutti.

La poetessa dei Navigli sposò il medico poeta tarantino Michele Pierri per amore. L’angelo che la salvò dal vorticoso turbinio di malessere psicofisico che la vedeva vela errante smarrita nelle tempeste del reale. Anima fragile rovinosamente persa nel gorgo muto pavesiano.

Abbandonò il grigiore della sua Milano, animata da speranze e passione, e si lasciò incantare dal vento magico di una città custodita tra due mari. Andò in sposa al suo “angelo” nonostante i trent’anni che li separavano, nonostante i dieci figli di lui riluttanti all’unione, nonostante il ricordo (sempre più “ingombrante”) della prima moglie. Lei scriverà: «Tu mi parli della tua vita e dell’angelo che ha lasciato in te il profumo della presenza, tu mi parli di solitudini e di antiche montagne di memorie e non sai che in me risvegli la vita, non sai che in me risvegli l’amore parlandomi di una donna».

La vecchia ed enorme villa, di residenza del marito, pareva un mausoleo in onore della defunta e amatissima prima moglie. In tutta la casa vi erano quadri, vestiti, effetti personali della donna, tanto che Alda, per rispetto, terrà sempre i suoi vestiti in valigia.

La permanenza di Alda nella città della Magna Grecia segnò il suo essere intimamente poeta esaltando la sua vena compositiva. Presto le metafisiche atmosfere della solarità salentina sostituirono la sospesa malinconia dei Navigli e il lento cadenzare delle onde annullò nell’oblio il frenetico velocizzare urbano del capoluogo lombardo.

Pierri era il fondatore dell’Accademia Salentina e amico di Maria Corti, Ungaretti, Quasimodo, oltre che valentissimo chirurgo. Un ambiente lirico vivace che deve aver appagato Alda nel profondo restituendole quell’intima serenità che le avverse circostanze, fino a quel momento, le avevano precluso costringendola a subire un’esistenza in costante bilico tra amore e disamore.

Nello stimolante ambiente tarantino pubblica, nel 1983, diverse raccolte liriche tra cui Rime petrose, per Michele Pierri, dedicate al marito, Le satire della Ripa, Le più belle poesie e le venti “poesie-ritratti” de La gazza ladra del 1985. Inoltre porterà a compimento L’altra verità. Diario di una diversa, suo primo libro in prosa.

Il sentimento puro che nutriva per il marito traspare immenso nelle liriche a lui dedicate. In Ho sentimento questa passione viene avvertita come “strana”, indefinibile, ineffabile. Il lirismo si eleva fino all’apogeo della sua potente carica espressiva.

«Ho sentimento di una cosa strana che tutta mi colora e m’indurisce; e che mi pare di essere sovrana di largo tempo e tutta mi smarrisce questa tua apparizione così bella che a me sembri non uomo ma una stella».

Ma gli antichi fantasmi ritornano a danzare in un ballo tondo che neppure l’estasi di un amore riesce a demolire. Alda Merini si racconta e ci racconta la sua anima di perenne inquieta in questo ritratto che offre di se stessa.

«Amai teneramente dei dolcissimi amanti senza che essi sapessero mai nulla. E su questi intessei tele di ragno e fui preda della mia stessa materia. In me l’anima c’era della meretrice della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto un’isterica».

Un ritratto aspro e impietoso, privo del linguaggio mitologico e onirico, dal quale emerge una donna vittima e, al tempo stesso, generatrice di amore. Amore e dolore sono stati una costante nella vita di Alda Merini. La luce del nuovo giorno, però, era destinata a spegnersi ancora una volta. La sua anima profetica aveva avvertito l’eclissi prima del suo manifestarsi.

«Ho timor di tua morte e me ne parli, a volte penso senza sentimento, senza capir che io mi perderei dentro questo murale tuo frammento e sì alto e sì forte gemerei da perder senno e ogni altro contento, mentre io parlo di vita dolcemente ma tu al mio appello non sei mai presente».

Michele Pierri si ammala di una malattia che lo condurrà alla morte e lento e inesorabile riaffiora per Alda il baratro del gorgo muto. Verrà ricoverata in un ospedale psichiatrico che solcherà ulteriori ferite nella sua anima lacerata. La morte del marito le strapperà frammenti di cuore che proietterà nelle strazianti liriche che seguiranno il suo ritorno a Milano.

L’esperienza tarantina genererà in lei uno spiritualismo magico fatto di panteismi, tradizioni, usanze, passioni ed esperienze poetiche nel segno di un amore vissuto profondamente negli illuminanti echi di una prodigiosa mitica grecità.

Non vedrò mai Taranto bella/ non vedrò mai le betulle/né la foresta marina:/ l’onda è pietrificata e le piovre mi pulsano negli occhi./ Sei venuto tu, amore mio,/ in una insenatura di fiume,/ hai fermato il mio corso/ e non vedrò mai Taranto azzurra,/ e il mare Ionio suonerà le mie esequie.